Speroni risponde a Statera: nel libro ci sono sette verità e un’ipotesi

Ecco la risposta di Donato Speroni alle critiche contenute nella recensione de “L’intrigo saudita” da parte di Alberto Statera.

Ben tre pagine delle 454 che secondo Alberto Statera “infliggo al lettore” sono occupate dalla pubblicazione di ampi stralci degli articoli importanti e puntuali che lo stesso Statera scrisse per l’Espresso trent’anni fa a seguito della vicenda Eni – Petromin. Il mio obiettivo, scrivendo questo “saggio ponderoso”, non era solo di ricostruire una vicenda misteriosa, ma di raccontare l’impatto di quello scandalo sulle imprese pubbliche, sui giornali e sulla politica. Da qui l’ampiezza della documentazione riportata, che occupa circa metà del libro. Penso di aver fatto qualcosa di utile, visto che lo stesso Statera, in risposta a una mia mail di ringraziamento, mi scrive: “Comunque il libro, come credo di aver detto, è molto interessante e l’ho letto in un pomeriggio”. No Alberto, questo in realtà nel tuo pezzo non c’è, ma grazie lo stesso per il riconoscimento postumo.

Veniamo al punto più importante toccato dall’ampia  recensione pubblicata il 5 ottobre su Affari e Finanza di Repubblica. In sostanza, Statera afferma che il libro arriva alla conclusione “che non si sa a chi la tangente sia andata e a chi dovesse andare”. In realtà il capitolo conclusivo del mio libro si chiama “sette verità e un’ipotesi”. Le verità che emergono dalle indagini, ancorché dimenticate dalla memoria storica, portano a dire con certezza che la tangente non fu concepita per finanziare i partiti italiani, che i soldi (tranne una piccola parte destinata al mediatore iraniano Parviz Mina), furono tutti destinati ai sauditi (come ammise lo stesso Mina nel 1984), che i sauditi li collocarono su conti svizzeri, nessuno dei quali destinato a italiani. Dunque: che il presidente dell’Eni Giorgio Mazzanti (peraltro mai neppure sfiorato da un’incriminazione) era innocente; che la P2 non c’entrava con la gestione della tangente, anche se Licio Gelli cercò di sfruttare la vicenda a suo vantaggio; che molti partiti e giornali si fecero invischiare in un trappolone. In pratica, affermo in modo documentato che la tesi di Rino Formica di una tangente gestita dalla loggia di Ortolani e Gelli è infondata.

Questi, caro Alberto, sono i punti certi ai quali ho voluto arrivare col mio libro. Smentiscono la tua affermazione finale che “questo è un paese senza più verità”. Guai a liquidare i casi più controversi degli ultimi cinquant’anni, da Ustica all’Enimont, dicendo che la verità non esiste o non si può trovare.

E’ vero invece che nello sforzo certosino (grazie di questo aggettivo: me ne faccio un vanto) di ricostruire la verità quasi sempre manca qualche tassello. Nel caso Eni – Petromin, il tassello mancante, quello su cui mi limito ad avanzare un’ipotesi, è come mai il contratto fu fatto saltare, visto che ci sono evidenze incontrovertibili che qualcuno rubò documenti dalla cassaforte di Mazzanti (ne parlò anche Statera in una intervista a Mazzanti del 1981) e mescolò notizie vere e false col tipico stile di disinformazione dei servizi segreti di tutto il mondo.  Chi ha sabotato il contratto dell’Eni con l’Arabia Saudita? Nel libro si avanza un’ipotesi, non perché è quella che “più mi aggrada”, ma perché mi sembra l’unica possibile: che, come scrisse una newsletter di Beirut ai tempi dello scandalo, una parte consistente della tangente fosse destinata ai palestinesi, e che quindi lo scandalo sia  stato fatto deflagrare per bloccare questo finanziamento. Per la cronaca, ho scritto queste pagine ancor prima di intervistare Francesco Cossiga, che non ho cercato come “esperto di spionaggio alla James Tont” (come afferma sarcasticamente Statera), ma più semplicemente come testimone dell’epoca, visto che era presidente del Consiglio quando scoppiò lo scandalo e fu lui a pilotare le dimissioni di Mazzanti per soddisfare la richiesta di Craxi.

Spero nel complesso di aver scritto un libro leggibile e preciso, ma anche di aver riportato attenzione su un caso che meriterebbe ulteriori approfondimenti. Non per provare l’innocenza di Mazzanti e del suo “ministro degli esteri” Carlo Sarchi, non per dimostrare che i soldi non tornarono in Italia (fatti ormai documentati, anche se la “prova d’innocenza” è sempre una prova diabolica), ma per scoprire che uso i sauditi fecero della tangente. Forse i nostri servizi d’informazione sanno qualcosa in più, ma l’intera vicenda, come spiega Cossiga nell’intervista, è tuttora coperta da un triplice segreto di Stato: dalla Presidenza del Consiglio, dal Parlamento e da Stati esteri per eventuali appunti forniti ai nostri servizi.

Sul sito http://www.intrigosaudita.it, d’accordo con l’editore, abbiamo riportato molti documenti originali, per consentire a ciascuno di farsi una propria opinione. Se emergeranno altri elementi di verità, il sito potrà registrarli. Alberto Statera è un valido giornalista che conosce bene quelle vicende e col collega Salvatore Gatti all’epoca pubblicò materiale inedito e importante. Forse egli stesso potrà contribuire con qualche altro elemento.

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